Un racconto narrato da un idiota; la “banalità” della violenza?
DOI:
https://doi.org/10.6092/1827-9198/5234Parole chiave:
psicoanalisi, violenza, aggressione, affetto, emozione, sviluppo infantileAbstract
Generalmente s’intende la violenza come un fatto comportamentale, le cui conseguenze
psicologiche sono incidentali. Da qui, l’idea che la violenza ha a che fare con l’impulso o
che sia irragionevole. Qui, contro intuitivamente, io voglio considerare l’idea che
l’esperienza psicologica è al cuore della violenza e che l’azione e il comportamento ne
sono il corollario. Da questo vertice è possibile considerare le manifestazioni di violenza
non come un’assenza di pensiero, quanto piuttosto come allontanamento e radicale
cancellazione di un’esperienza affettiva che rischia di sopraffare.
Con buone ragioni i clinici hanno un pregiudizio nel tenere la violenza fuori del
gabinetto di consultazione. Tuttavia nel considerare la violenza una sorta di atto
mancato, che nasconde e rivela, diviene possibile comprendere le sue manifestazioni
nella stanza di consultazione e considerare come è viva nella relazione terapeutica,
momento dopo momento, nella relazione transferale e controtransferale, in opposizione
all’aver luogo “fuori da lì”. Quale clinico che cerca di comprendere le ragioni cliniche,
in opposizione a una visione teologica o filosofica, voglio considerare il “demone della
violenza” da un punto di vista analitico, e in particolar modo come gli elementi
simbolici del “diabolico” entrano nella vita umana influenzando i comportamenti
normali e patologici. Nel parafrasare la «banalità del male» di Hannah Arendt, io
parlerei della banalità della violenza.
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